( di Mario Apparente) E’ storicamente tangibile e indubitabile la difficoltà che la nazionale di calcio dell’Inghilterra patisce nell’imporsi a livello continentale e mondiale in competizioni ufficiali. Peraltro negli ultimi anni, con l’avvento di nuove realtà calcistiche e il dominio in campo internazionale dei club spagnoli (per l’appunto il Barcellona, che nel 2011 infranse i sogni di gloria del Manchester United nella finale di Webley) anche i club della federazione inglese stanno attraversando un periodo di magra a cui per rincarare la dose seguono performance imbarazzanti e indegne per quelli che teoricamente rappresentano il paese indicato come manifesto del calcio. Certo, in casa loro è tutto tremendamente diverso, offrono alla gente lo spettacolo che in molti vorremmo vedere in Italia ma ben diverso è quando una squadra inglese ne affronta una di un paese differente con una cultura calcistica propria che di certo si riflette sul campo di calcio. Ed è verosimilmente proprio il confronto fra culture e stili differenti a rendere affascinanti le due principali competizioni internazionali per club: la Champions League e soprattutto l’ Europa League, a dispetto dei molti italici che la considerano una coppetta e vorrebbero sopprimerla.
Tuttavia, sebbene i risultati tenderebbero a dimostrare il contrario, negli ultimi 3 o 4 anni una nidiata di pulcini terribilmente interessanti ha invaso il calcio inglese e grazie all’ausilio delle sopracitate competizioni internazionali fra club, hanno avuto la fortuna di farsi conoscere e apprezzare da un vasto pubblico non circoscritto.
Uno di questi è Jack Wilshere, che, nei quarti della corrente edizione di Champions League, ha sfoderato una prestazione di qualità, quantità e grande personalità, contro il Bayern Monaco (non una squadra qualsiasi). E’ stato il solo a salvarsi (uno dei due inglesi fra gli undici titolari dell’Arsenal) nel disastro globale, assumendosi la responsabilità di una squadra importante; un classe 1992 (in barba a chi non crede nei giovani e che magari forse un po’ si è ricreduto dopo che più della metà dei punti realizzati fra campionato e coppa sono merito di un classe 1992: Stephan El Shaarawy).
Chi sa’, magari gli italiani condividono qualcosa con i “maestri” del calcio. Credere che l’erba del vicino sia sempre più verde anche quando ha lo stesso colore degli indecenti prati degli stadi italiani?
Un altro è Tom Cleverley, che non ha avuto la stessa fortuna del suo coetaneo ma si è sempre fatto trovare pronto ogni qual volta chiamato in causa palesando oltre che eccellenti doti tecniche, grande personalità proprio come il centrocampista dell’Arsenal. Il Sir. gli preferisce elementi più maturi, d’altro canto è pur vero che questi non si chiamano Ambrosini e di tal fatto bisogna dargliene atto.
E poi per concludere, non perché sia l’ultimo dei pulcini rimasti ma in quanto mi riservo il diritto di scrivere una seconda parte qualora l’argomento interesserà ai lettori, Daniel Sturridge.
Anch’egli inglese, anch’egli come spesso accade dalle nostre parti scartato per elementi più rodati (fra l’altro valutati circa 5 volte di più e con una media voto 10 volte inferiore; è naturale che io non mi riferisca a Fernando Torres …!) il cui, ehm, scadente contributo ha cooperato in maniera basilare all’esonero di un allenatore e poi un altro ancora nonché a farne dei capi espiatori. Perché si sa’: dare la colpa agli altri è sempre più facile del fare mea culpa e ammettere le proprie scelleratezze o i cazzo di sbagli.
Si, somigliamo un po’ agli inglesi. Quegli stessi che sui giornali nazionali scrivono di noi come fossimo la feccia dell’umanità e poi ci “copiano”. Ma in cuor loro ci stimano.
Editoriale a cura di:
Mario Apparente
Mario Apparente
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